mercoledì 16 maggio 2012

La Bosnia oltre Mladic

Inizia oggi il processo a Ratko Mladic, il capo militare dell'esercito della Repubblica Serbia di Bosnia, responsabile dell'eccidio di Srebrenica, il peggior massacro avvenuto in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Verrà processato al Tribunale internazionale dell'Aja, istituito dalle Nazioni Unite per giudicare i crimini avvenuti durante la guerra in ex Jugoslavia. L'Onu cerca quindi di ristabilire quella giustizia che negli anni Novanta non fu di fatto capace di custodire, partendo proprio da Srebrenica, zona di sicurezza che i caschi blu olandesi non riuscirono a difendere. Ci si augura che finalmente si faccia giustizia. Ma non ci si può scordare che oggi la Bosnia è un paese dimenticato dalla comunità internazionale, e vive ancora in pieno il dopoguerra. Per farla rivivere non basterà processare i responsabili di Srebrenica: bisognerà fare i conti anche con chi oggi vuole che gli accordi bellici di Dayton siano, quasi vent'anni dopo, un architrave istituzionale su cui costruire uno stato.

Perché infatti su quegli accordi non è stato costruito nulla. Dayton serviva per fermare la guerra, diventata ormai un'immagine troppo violenta per essere sopportata dall'Europa. Temo che processare Mladic purtroppo servirà a poco, se insieme - oltre al ponte di Mostar che è tornato a riempire le cartoline - non si ripristineranno le strade al suo fianco, che restano piene di macerie. A testimonianza di cosa sia oggi davvero la Bosnia.

venerdì 4 maggio 2012

Druze Tito mi ti se kunemo (?)



Il 4 maggio del 1980 moriva l'uomo che fece la Jugoslavia: Josip Broz, noto al nome col nome di Tito. A Spalato si stava giocando uno dei grandi classici del calcio jugoslavo: Hajuduk Spalato contro Stella Rossa di Belgrado. La notizia fu sconvolgente. La partita si fermò per il canonico minuto di silenzio: le facce dei giocatori e degli arbitri sconvolte, più di qualcuno non trattiene le lacrime. Dal pubblico si alzò un coro, a tifoserie unite: Druže Tito, mi ti se kunemo / da sa tvoga puta ne skrenemo! "Compagno Tito, non ti tradiremo, dalla tua strada non devieremo."

Eppure la storia andò diversamente. Esattamente dieci anni dopo, nel giugno del 1990, fu un'altra partita di calcio a segnare la fine della Jugoslavia: Dinamo Zagabria contro Stella Rossa. Si era appena votato nella repubblica jugoslava di Croazia, con esiti favorevoli ai nazionalisti. Quella volta il calcio non servì per unire, ma per dividere. Perfino un giocatore come Boban prese a calci un poliziotto, gesto che gli impedì di partecipare ai mondiali degli anni '90 con la maglia della nazionale jugoslava. Ma in fondo, forse, la Jugoslavia era già finita.

venerdì 27 aprile 2012

Yugoland su Pinterest

Il fatto che le storie si possano raccontare anche per immagini è un po' il concetto alla base dello YUGOLAND-libro (del quale riparleremo a breve). Un concetto alla base anche dell'intero progetto editoriale di BeccoGiallo, che la forza delle immagini la usa da sempre per approfondire e ricordare cose che non dovrebbero essere messe da parte. Proprio per questo non potevamo trascurare la nuova sensazione in campo social, quel Pinterest che proprio sulle immagini basa il suo successo. O meglio, potevamo trascurarlo, ma gli ordini dall'alto non si discutono... Scherzi a parte, l'esperienza è a dir poco stimolante, e posso affrontarla per una volta in compagnia. La board YUGOLAND è infatti aperta ai contributi di chiunque voglia condividere le sue Yugo-esperienze in questo modo un po' particolare. Non male, questo Pinterest!

martedì 24 aprile 2012

Un caso di Resistenza? il Feral Tribune

Si sa: le brutte storie acquisiscono spesso più fama di quelle positive. E così è stato anche per la guerra in Jugoslavia. Anche se non tutti si sono schierati subito dalla parte dei nazionalismi di diversa matrice. Uno degli esempi resistenti più virtuosi è sicuramente il Feral Tribune, giornale croato nato negli anni Ottanta nell'ambiente universitario spalatino per sbeffeggiare il Potere e chiedere maggiore libertà, e diventato con il tempo la principale voce indipendente di tutta la Croazia. Nato come giornale satirico, durante la guerra il Feral Tribune, con i suoi inviati al fronte sempre più numerosi, è diventato giorno dopo giorno più stimato e autorevole, puntando sulla cronaca e raccontando le violenze della guerra indipendentemente dall'etnia dei responsabili.

Questa indipendenza è costata cara al Feral Tribune: nel 2008, nonostante vendesse attorno alle quattordicimila copie (un'ottima tiratura per un paese piccolo come la Croazia), per il giornale fu di fatto impossibile attingere alla pubblicità a causa dell'ostracismo che il mondo politico croato cominciò a creare attorno alla testata. Fu così costretto a chiudere, nonostante godesse ancora di ottima salute, come mi ha raccontato uno dei suoi fondatori, Predrag Lucić, al tavolo di bar di Spalato.

venerdì 13 aprile 2012

Scrivilo tu, no?

Dovevo averli proprio stressati tanto, quelli che poi sarebbero diventati i miei editori. Eravamo soliti vederci all'ora dell'aperitivo, a Padova, in quella che è tuttora la loro principale attività di svago: scoprire vini nuovi, di enoteca in enoteca. Intendiamoci: loro la prendono come una cosa seria, quasi un secondo mestiere, mentre io continuavo a distrarli con la storia che in occasione dei vent'anni dall'inizio della guerra che avrebbe portato alla disgregazione della Jugoslavia avrebbero dovuto pensare a un libro che parlava dei nostri vicini di casa. Nei Balcani c'ero già stato e avevo già scoperto qualcosa, ma non ero un esperto. Sta di fatto che - probabilmente per farmi stare buono e gustarsi qualche nuovo vino non filtrato dai colori improbabili - mi dissero: "Scrivilo tu, no? E parti in bicicletta, se puoi, che la cosa così si fa un po' più interessante."
La prima proposta, che era già abbastanza folle, la accettai. La seconda venne declinata: era gennaio, e affrontare i Balcani innevati in bicicletta forse era un po' esagerato.

Poi un giorno partii sul serio. Tirammo dentro al progetto il disegnatore Gabriele Gamberini, già autore per BeccoGiallo nel progetto Dossier G8 - la scuola Diaz, e ormai "cittadino" di Sarajevo. Poi il progetto rallentò inesorabilmente: lavoravo pur sempre per Legambiente, e il referendum contro il nucleare compromise la mia attività di pseudo-scrittore. Ma il ritardo era giustificato, e - vista la causa - l'editore non solo comprendeva, ma soffiava nelle vele che avrebbero portato i sì a trionfare con una nuova edizione di "Chernobyl, di cosa sono fatte le nuvole", presentandolo (spesso con il sottoscritto) a ogni occasione buona.

Oggi, dopo più di un anno, il lavoro è quasi finito. Se sarà un buon lavoro lo giudicherete voi (che i disegni mi sembrano bellissimi ve lo posso dire fin da subito, visto che non sono opera mia). Io vi posso dire che ho scoperto luoghi fantastici e personaggi notevoli, ottime grappe, cibi sfiziosi e qualche vino curioso (naturalmente troppo pochi, secondo l'editore) e soprattutto una storia decisamente diversa da quella che ufficiale.
Spero di essere riuscito a raccontarvi tutto nel migliore dei modi, e senza annoiarvi troppo!

giovedì 5 aprile 2012

Per un pugno di carne (in scatola): 20 anni fa, a Sarajevo

L'assedio di Sarajevo cominciava vent'anni fa, fra il silenzio del Mondo e dell'Europa. Questo silenzio se lo ricordano bene i cittadini di Sarajevo: oggi è condensato in un monumento, una scultura di poco più di due metri nascosta in una piccola piazza dietro al museo della guerra. Rappresenta una scatola di cibo, come quelle inviate dal Mondo ai cittadini assediati, sotto la rassicurante definizione di "aiuti umanitari". Sulla base una firma, pregna di sarcasmo: "La riconoscente cittadinanza di Sarajevo." Come a dire: grazie per tutto quelle che non avete fatto, grazie per non aver difeso una città patrimonio del mondo, grazie per aver chiuso gli occhi quando le certezze di un secolo crollavano insieme alla Jugoslavia.
Di tutto questo la guerra in Bosnia ne è simbolo. Ed è ancora di più l'assedio di Sarajevo: 1.425 interminabili giorni. Terra della convivenza multireligiosa prima, e poi emblema dell'odio etnico, assediata dai serbi ma che vantava il generale serbo Jovan Divjak come primo fra i suoi difensori, laica e capitale dell'Islam. La città che in dieci anni è stata sempre al centro della scena: prima per le olimpiadi invernali, poi perché da quelle stesse montagne i cecchini sparavano ai cittadini inermi. E mentre la Biblioteca Nazionale Bosniaca bruciava, deliberatamente colpita dall'odio etnico, le democrazie di tutto il mondo manifestavano la loro impotenza. 

La Germania e il Vaticano, solerte nel sostegno alle terre cattoliche di Slovenia e Croazia. La Francia, che oltre a una passeggiata del Presidente Mitterand nel centro di Sarajevo non fu capace di altro. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, capaci di esportare la democrazia negli angoli più remoti del pianeta ma inerte quando si trattava di difenderla a due passi da casa. L'Olanda, mentre il suo esercito guardava distratto quello che succedeva a Srebrenica sancendo l'impossibilità delle Nazioni Uniti di fare quello per cui erano nate, ovvero "salvare le future generazioni dal flagello della guerra".

La guerra ci fu. E fa strano che oggi a criticarla siano proprio quelli che l'hanno combattuta. In questi giorni, infatti, ex soldati serbi, bosgnacchi e croati si sono ritrovati tutti assieme, ormai alleati, a protestare di fronte al Parlamento bosniaco per chiedere il diritto alla pensione. Nella loro protesta si legge l'amarezza di chi, vent'anni dopo, ha scoperto di essere stato ingannato da coloro che, nascondendosi dietro la bandiera del nazionalismo, non hanno fatto altro che conquistarsi frammenti di potere a discapito della gente comune. Croati, serbi o musulmani.

martedì 3 aprile 2012

L'Istria è (anche) terra di Vino

L'Istria non è famosa solo per le belle coste e le colline dell'entroterra, ma anche per il buon vino. Senza dubbio il più noto dei vini istriani è la Malvasia, da servire a mio parere fresca con un piatto di pesce possibilmente appena pescato. Ma piano piano stanno salendo (risalendo?) alla ribalta anche altri vitigni tipici di questa penisola: come il Refosco (in foto vinificato rosé), il Moscato e il Terrano, che come dice il nome affonda le sue radici nella cultura contadina locale. Ma a farsi spazio (anche qui) sono vini a vocazione più "internazionale", come Cabernet e Syrah. I prezzi tendenzialmente più bassi dei vini italiani nonostante una buona qualità permettono ai viticoltori istriani di trovare sbocchi di mercato in Austria e Germani, oltre ovviamente a soddisfare il consumo locale, che si impenna in estate con l'arrivo in massa di turisti da tutta Europa.

Se siete curiosi di scoprire al meglio le qualità enologiche dell'Istria prossimamente ci saranno due eventi che fanno al caso vostro: la degustazione di vini dell'Istria centrale a Gracisce e la fiera di vini "Vinistra", ormai di richiamo internazionale, che si svolge a Parenzo dal 11 al 13 maggio. Insomma, cosa aspettate? Io ci sarò di sicuro!

mercoledì 28 marzo 2012

In vacanza a Ohrid

Se vi piace andare in vacanza al lago, un posto che non potete perdervi è la cittadina di Ohrid, posta sull'omonimo lago al confine fra Macedonia e Albania. Ohrid dista solo due ore da Skopije: sarà per questo che in estate la popolazione della capitale macedone sembra spostarsi in massa in questa piccola cittadina. Piccola però densa di storia. Fu città episcopale e sede di un importante scuola letteraria: sembra che il cirillico sia stato riformato proprio da San Clemente di Ocrida (versione italiana di Ohrid) che modificò l'alfabeto glaolitico inventato da Cirillo e Metodio. La storia di Ohrid si respira nelle sue strade del centro, dove fra una chiesa e una moschea si comprende l'importanza che questo borgo assunse nel medioevo. Se decidete di visitare Ohrid durante l'alta stagione sappiate però che, vista la ressa, le piccole strade del centro poco si prestanno alle passeggiate. Meglio quattro passi sul lungo-lago, dove ci si può anche permettere un bagno rinfrsescante, prima di una serata nella movida macedone.

Se invece preferite la bassa stagione, allora un'ottima occasione è visitare Ohrid nel periodo del carnevale di Vevcani, una cittadina poco distante dal lago. Buon divertimento!

mercoledì 14 marzo 2012

Sopravvivere a Guča

Se volete testare quanto il vostro fisico può sopportare condizioni estreme, ebbene dovete andare a Guča. Guča è un piccolossimo villaggio della Serbia centrale, non troppo distante dal confine bosniaco.

Qui, da oltre 50 anni, si svolge quello che è probabilmente il più importante festival di ottoni, attraverso il quale Boban Markovič ha conquistato la scena mondiale.
Si tratta di un vero è proprio concorso per bande di trombe e affini: ma attorno alla kermesse officiale è cresciuto, col passare degli anni, un vero e proprio raduno che vede appassionati raggiungere la Serbia da tutta Europa.

Chiariamo sin da subito: Guča non è un posto per palati raffinati. Si è praticamente costretti a dormire in tenda con decibel che raggiungono livelli sconosciuti, il miglior bagno a cui si può accedere è una latrina zeppa di mosche, le dosi di carne e šlivovica creano shock anche alle bocche meno delicate.
Ma se ci si ferma una, massimo due notti, ci si diverte davvero. Le bande di zingari che provengono da tutta Europa riempiono le strade del paese con le vibrazioni delle loro trombe: migliaia di persone le assecondano ballando per tutta la notte.





















A Guča però vi capiterà di vedere un sacco di persone con un cappello verde militare: il cappello dei cetnici, i nazionalisti serbi. È il prezzo che ha pagato il festival dopo le guerre balcaniche: ora qui il nazionalismo, a differenza dell'Exit Festival di Novi Sad, la fa da padrone. Per carità, i turisti son ben visti (anche se può capitare che qualcuno vi rimproveri perchè state bevendo birra montenegrina in Serbia), e la maggior parte della gente è accogliente (sono molte le persone, soprattutto straniere che indossano il cappello senza sapere di cosa si tratti, indossandolo come un semplice indumento folkloristico).

Certo però che se le bancarelle evitassero di vendere le magliette recanti la scritta "Mladić eroe" ci si potrebbe godere la musica più a cuor leggero.


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mercoledì 7 marzo 2012

Lo Yugobasket / 2

Nel precedente post sul basket in Jugoslavia concludevo spiegando come secondo Sergio Tavčar, nota voce di Tele Capodistria, il maggior rischio per il basket jugoslavo fosse quello "dell'americanizzazione" (che ha già condannato l'Italia). Che cosa vuol dire americanizzarsi lo si può capire forse da soli, ed è qualcosa di applicabile a tutti i campi della vita. Ma nello sport questa cosa si capisce forse meglio.
Fra i suoi aneddoti Tavčar raccontava di quando a inizio partita vide una squadra fare un gioco spettacolare, finire l'azione con una schiacciata ed esultare come cretini. Nell'azione seguente, la squadra avversaria crea un'azione diligente, un tiro semplice, e il marcatore, alzando le dita, avverte: guardate che siamo due a due.
L'americanizzazione, detta in altri termini, è lo strapotere dell'immagine sulla sostanza. Nell'NBA, spiega Tavčar, si possono vedere giocatori esultare per una schiacciata anche se la propria squadra è sotto di venti punti. E per la stessa ragione è ormai impossibile vedere un giocatore mirare al tabellone, anche se questo rende più semplice fare canestro.
Questo tipo di impostazione diventa letale per lo sport: l'estrema spettacolarizzazione rischia di trasformare ciò che conosciamo in qualcosa di diverso. E' il caso della lotta libera e della lotta greco-romana: relegate ormai a sport di quarto ordine mentre la versione finta e spettacolarizzata, cioè il wrestling, dilaga in TV.
Le squadre dell'ex Jugoslavia riusciranno a mantenere la loro forza solo se resteranno immuni da questa filosofia, dando spazio al loro spirito balcanico, irruento, genialoide, grezzo. Ma soprattutto, autentico e sincero.

P.S. Nella foto: Mirza Delibasic, talento jugoslavo degli anni Ottanta.